Stiamo tornando a casa

Abbiamo viaggiato in lungo e in largo, abbiamo visto nature e conosciuto culture, abbiamo assaggiato cibi e parlato lingue, abbiamo raccolto immagini e souvenir, abbiamo intrecciato la nostra anima con le altre. Lo abbiamo fatto ogni giorno ed in ogni luogo: a lavoro, al supermercato, ad una festa a casa di amici, in coda al semaforo, in aeroporto, correndo al parco, ordinando su Just eat. Lo abbiamo fatto spontaneamente, sino ad oggi.

Adesso siamo rimasti soli, e non ce lo aspettavamo. Abbiamo perso la libertà, e non ci sembra vero. Ci hanno concesso le finestre, solo le finestre. Ci hanno spiegato che il male sta nel contatto con l’altro. Prima era contaminazione feconda, ora è contagio funesto. Prima viene la salute, la salute dei cittadini e la salute pubblica. Lo hanno fatto per noi, e noi siamo grati perché nessuno di noi vuole essere uno dei numeri delle 18.00. Nella curva del male noi non ci vogliamo entrare. Alle 18.00 noi cantiamo, ma solo un po’. Oggi diciamo grazie, buoni, ordinati, disciplinati, ad un metro di distanza dai nostri affetti. 

Cento centimetri: il baratro del virus, il canyon che ci salva, la gola profonda senza ponti di corda tra uomini spaventati, disorientati, mascherati, protetti, sterilizzati. La nuova unità di misura che smisura l’unità, che fa dimenticare Greta, che risolve le contraddizioni della gig economy, che offusca gli abbracci di Papa Francesco e che prosciuga il Mar Mediterraneo e i suoi pericoli. Siamo isolati.

Noi però non siamo figli del nulla, siamo gente d’Occidente noi, sappiamo riconoscere la crisi dello spirito che si nasconde nel trauma della società, che arriva insieme all’emergenza sanitaria ed a quella economica. «Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia», così appuntò Paul Valéry. 

Il frastuono della vita che abbiamo conosciuto prendeva a pugni le nostre cellule ed allora ogni condizione era passeggera, insoddisfacente e risolvibile: euforia, noia, gioia, solitudine, astio, assillo, inadeguatezza. Che problema c’era? Bastava stringere forte in mano lo smartphone ogni volta e una rapida masturbazione cerebrale ci avrebbe rilassato. Workout e running per fare spazio al superuomo dannunziano, «Canta la gioia! Lungi da l’anima nostra il dolore, veste cinerea. È un misero schiavo colui che del dolore fa la sua veste». E tutti a letto ubriachi della costante impostura di potersi sentire insieme immorali ed immortali.

Ma poi senza particolari avvertimenti la didascalia “…ai tempi del Coronavirus” ha cominciato ad invadere la nostra quotidianità scontata, programmata, definita ma non definitiva, evidentemente. Stiamo pulendo a fondo le nostre case, tutte le case, quelle che vediamo ad occhi aperti e quelle che vediamo ad occhi chiusi, le nostre residenze interiori. Scarseggia il lievito di birra sugli scaffali dei supermarket che odorano di clinica, e la sera tantissime mani affondano in un profumato impasto di farina, acqua e voglia di ritrovare le radici più profonde della nostra intimità. 

Sappiamo fare cose che non immaginavamo di saper fare. Riusciamo a fare la pizza ed a guardarci dentro e così possiamo «vedere la luce dell’uomo delle stelle che aspetta in cielo e che vorrebbe venire ad incontrarci», come cantava David Bowie. Riusciamo a sentire il buon sapore e la fragranza autentica del nostro lavoro più complesso. Mentre tutti ci raccomandano di restare in casa noi stiamo tornando a casa, e allora, forse, non siamo perduti. 

Presidente del Centro Studi Occidentali