Da quando è nato il mondo i divi dello sport sono abituati a sentirsi parte di una casta privilegiata, di più: una élite semidivina che risponde a regole ed abitudini sconosciute ed inaccessibili ai più. Ciò in virtù della straordinaria popolarità di cui hanno sempre goduto, un inusitato consenso che ha sempre suscitato, oltre ad una certa invidia, l’attenzione interessata del potere politico, da sempre proteso all’utilizzo dei fenomeni di massa nella costruzione del consenso. Tale paradigma fu inventato nella Roma repubblicana quando l’organizzazione degli spettacoli e i ludi dei gladiatori servivano ai politici per guadagnare il consenso popolare, che sarebbe stato sfruttato poi nelle complesse ed estenuanti annuali campagne elettorali che assegnavano le magistrature. Paradigma perfezionato poi nella Roma Imperiale quando gli stessi spettacoli servivano a compattare il consenso popolare attorno alla figura dell’Imperatore e, al tempo stesso, a stemperare le tensioni politiche, evitando che la successione al trono fosse determinata da qualche congiura di palazzo o dall’immancabile sedizione militare.
Non sempre filava tutto liscio. Nel 532, ad esempio, ai tempi di Giustiniano, una semplice disputa sportiva tra le “tifoserie” azzurra e verde dell’ippodromo di Costantinopoli, degenerò in un conflitto politico con relativi tumulti popolari che portarono l’Impero Romano d’Oriente al limite del collasso. Tornando ad epoche a noi più vicine, nel solo ‘900 si registrarono almeno tre celebri casi in cui lo sport, a causa della sua grande popolarità, assurse al ruolo di soggetto politico creatore di consenso. Mi riferisco, evidentemente, all’Italia due volte Campione del Mondo negli anni ‘30, fiore all’occhiello della propaganda fascista; alle Olimpiadi di Berlino del ‘36 che, riprendendo il modello mussoliniano, servirono a celebrare il regime nazista; ai Mondiali di calcio di Argentina ‘78 dietro i quali il regime di Videla provò, soprattutto a livello internazionale, a nascondere lo scempio della dittatura militare.
I divi dello sport, dunque, sono abituati a sentirsi diversi. Non per loro originaria predisposizione. E’ il consenso popolare e l’adulazione pelosa della politica a farli sentire tali. Sono abituati a credere che, per il solo fatto di esistere e di allietare le giornate di molti di noi, hanno molti diritti e non troppi doveri. Fatte salve le dovute commendevoli eccezioni, sono abituati ad avere, assai meno a dare. Si potrebbe derubricare questo approccio nel classico atteggiamento del bambino viziato, se non fosse per il fatto che questo genere di mentalità la ritroviamo inalterata nelle classi dirigenti che guidano lo sport, in particolare quelli a più forte impatto sociale, qual è il calcio.
Nelle prime settimane della crisi causata dal Covid-19 abbiamo assistito, ad esempio, a reazioni da parte dei vertici del calcio italiano che hanno molto più a che fare con la psichiatria che con la politica o l’economia sportiva. Una parte rilevante della classe dirigente, infatti, è parsa non volersi piegare alla realtà. Quando le persone dotate di un grado minimo di buon senso invitavano a fermare il movimento per non contribuire allo sviluppo della pandemia e per salvaguardare la salute di atleti e tifosi, reagivano stizziti. Hanno preteso che si giocasse ancora, all’insegna dell’ormai logora filosofia dello show must go on. Siamo arrivati così al clamoroso caso della partita Atalanta-Valencia, in occasione della quale metà della popolazione di Bergamo si è trasferita a Milano (S.Siro) per mescolarsi con qualche migliaio di supporters spagnoli. Ora i virologi chiamano quel match la “partita zero”, probabile responsabile di migliaia di contagiati nell’area bergamasca. Ancora in queste ore, quando la curva dei nuovi contagiati non accenna ad imboccare la via della decrescita, gli stessi dirigenti si affannano a stilare e ristilare calendari, a fissare e rifissare la data di ripresa della stagione, senza accorgersi che il loro esercizio non è troppo diverso dai giochi da tavolo che siamo costretti a fare in famiglia, nel tempo che ci lasciano libero lo smart working o la didattica a distanza dei nostri figli.
Hanno una sola idea fissa: perdere soldi. Non accettano l’idea che quello che sta accadendo a milioni di lavoratori, professionisti, autonomi e imprenditori italiani possa intaccare anche loro. Non accettano che il Covid-19 agisca come la “livella” di Totò, senza guardare in faccia nessuno. Sono terrorizzati all’idea di diventare protagonisti di una nuova “caduta degli dei” di viscontiana memoria. Lo si capisce da quello che è scaturito come un riflesso condizionato: chiedere soldi al Governo. Ma come, chiederete voi, un movimento che solo in Italia genera 2,7 miliardi di euro non è in grado di trovare al proprio interno un po’ di risorse per ovviare a qualche mese di blocco dell’attività? Si, è possibile, dal momento che quello stesso movimento spende ogni anno 3,5 miliardi di euro ed ha un indebitamento di 2,4 miliardi. Fiumi di denaro assorbiti nella quasi totalità dagli stipendi dei calciatori e dalle mostruose commissioni pagate alla categoria dei procuratori. Pensate che i primi tre procuratori di calcio al mondo assorbono in commissioni quasi 2,5 miliardi di euro!
Considerando questi numeri, c’è qualcuno che in questa drammatica situazione di emergenza può solo lontanamente accettare che il calcio professionistico di massimo livello abbia diritto ad aiuti di Stato? Suvvia siamo seri! In questo senso, bene ha fatto la Juventus che ha appena ricontrattato gli emolumenti dei propri dipendenti, tagliandoli di ben 90 milioni. Un esempio che farebbero bene a seguire tutti gli altri club di serie A, avviando una cura dimagrante che, se protratta nel tempo, non potrà che fare loro del bene. Ma a svegliarsi dovrebbero essere anche le istituzioni europee e mondiali, che nel caso del calcio portano il nome di UEFA e FIFA. Negli anni delle vacche grasse hanno incassato miliardi su miliardi. E’ arrivato il momento di mettere mano al portafoglio, aiutando chi tra i loro aderenti incontrerà maggiori difficoltà. Anche allentando, nel caso dell’UEFA, le maglie di quel fair play finanziario che, modellato sul trattato di Maastricht, in questi anni ha strangolato i club di livello medio e medio-alto, impedendo loro di immettere nel sistema capitali freschi anche quando ne disponevano.
L’UEFA in passato ha svolto un ruolo storico straordinario, creando un’Europa unita del calcio cinquanta anni prima che lo facesse la politica. Giochi anche stavolta di anticipo e operi su quelle ganasce che l’UE, nel suo campo, in tempi di Covid-19 è così restia ad allentare. Avrà dimostrato, un’altra volta, che lo sport, oltre che ad essere sfruttato dalla politica, è anche capace di indicarle la via. Gli stessi calciatori ne guadagnerebbero in stima e considerazione. Dimostrando, per una volta, di sapersi immedesimare nei problemi e nelle difficoltà della gente comune, tra i quali vanno annoverati i colleghi professionisti dei campionati minori, assai meno fortunati di loro, che ricevono (quando li ricevono) stipendi normali e che non hanno il problema di acquistare la terza o la quarta fuoriserie ma solo quello di arrivare alla fine del mese.