Se da una parte è evidente che i progetti europei abbiano promosso pace, sicurezza, evoluzione tecnologica e maggiore benessere, dall’altra è legittimo, dinnanzi a una situazione così drammatica come quella che stiamo vivendo, aspettarsi di più dalla comunità Europea nata dopo la seconda guerra mondiale. D’altronde, sebbene in forme e intensità diverse, sono state proprio le lunghe crisi e i grandi avvenimenti storici a promuovere il cambiamento in senso comunitario, anche se non è detto che questo abbia portato a una reale coscienza europea tra i cittadini.
Se si analizza l’evoluzione politica del nostro continente possiamo infatti notare che il secondo conflitto mondiale ha portato a una cooperazione tra stati sfociato nel 1951 nella CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, la varie crisi politiche tra URSS e Usa durante la guerra fredda hanno incentivato l’allargamento del mercato comune e l’istituzione del Parlamento Europeo (1979) al fine di creare una comunità che si potesse frapporre, in maniera libera, fra i due blocchi; la caduta del muro di Berlino incentiverà, solo qualche anno dopo, la nascita della stessa Unione Europea con la firma del Trattato di Maastricht. Inoltre, le sfide crescenti della globalizzazione hanno portato all’euro, mentre le crisi economiche del 2008 e 2010 hanno contribuito ad alimentare la costruzione dell’Unione Bancaria e la riforma del MES, cioè il fondo salva stati. Potreste osservare: troppa economia e poca politica. Pur trovandomi concorde con tale valutazione, il problema è più complesso di quanto non sembri. Mentre gli Usa sono una federazione di stati americani e si rifanno ad un’unica bandiera, con tutto ciò che ne consegue, l’Europa è una federazione di stati nazionali, ciascuno con una propria bandiera. Un melting pot, insomma, di culture, lingue, tradizioni e politiche sociali fortemente identitarie e diverse tra loro.
Non deve perciò sorprendere che il fattore che ha portato alla cooperazione tra stati, facendo leva su processi negoziali (spesso avvertiti lenti ed esasperanti dall’opinione pubblica), sia stata l’economia.
La crisi da Covid-19, però, è la prima emergenza sanitaria di natura continentale da quando è nata l’Unione e sta mettendo a dura prova le istituzioni europee. Il virus è invisibile, veloce e non corrompibile. La domanda sorge dunque spontanea: come batterlo? Non conoscendo la storia del nemico, non avendo armi per attaccarlo, le misure che vengono messe in atto al momento sono per lo più di natura contenitiva. Ci si esilia in maniera provvisoria per evitare che questa forza possa continuare ad uccidere, sperando così di guadagnare tempo. Ma è ovvio che si stia pensando a una misura risolutiva al fine di risparmiare vite umane e rendere meno dura l’incipiente depressione economica. Questo potrà avvenire soltanto con strategie condivise sul piano finanziario da parte dei paesi Ue e soltanto attraverso un rinnovato senso di solidarietà che porterà alla condivisione di dati e ricerche scientifiche utili a trovare le cure necessarie per debellare il Covid-19. Una corsa mal coordinata o, peggio ancora, solitaria da parte delle potenze europee non sarebbe la risposta che i cittadini meritano in questo momento perché allungherebbero i tempi della rinascita. Non è il momento per corse pruriginose e vacui nazionalismi. È necessario che gli stati della Comunità trovino un chiaro baricentro, per il bene comune.