Al limite, possiamo ricominciare?

Ciò a cui siamo drammaticamente disabituati, noi neogenitori sulla soglia dei quaranta, noi lavoratori indefessi alla continua ricerca del guadagno, noi accumulatori di “esperienze”, noi figli del benessere nel bel mezzo dell’abbondanza economica, noi civiltà del consumismo più sfrenato, è il senso del “limite”. Una parola oggi poco comune, se non nel linguaggio calcistico per designare la linea che delimita l’area di rigore. Il paradosso è che per i nostri genitori, e ancora di più per le generazioni dei nostri antenati, ha rappresentato il caposaldo e uno degli elementi più significativi della loro vita. Perché il limite rimanda immediatamente, senza troppi sforzi di astrazione, ad altri due principi che abbiamo inesorabilmente ignorato: il “valore” di ciò di cui disponiamo e la relativa capacità di “scegliere” e di esprimere preferenze. 

E da qui, il superamento dell’assunzione centrale della teoria economica delle decisioni individuali: la tesi dell’homo oeconomicus, che persegue l’obiettivo di massimizzazione del proprio benessere, definito da una funzione di utilità, al prezzo migliore. In altri termini, un agente razionale che attribuisce un preciso “valore” al bene che intende acquistare, “scegliendo” opportunamente e consapevolmente quali sono e quali saranno in futuro le sue più urgenti esigenze ed in base ai propri gusti, sintetizzati da una relazione di preferenza, nel rispetto del “limite” delle risorse monetarie (ahinoi) non illimitate.

Ancorché la tesi della razionalità sia stata ampiamente superata da modelli teorici più recenti e di assoluto pregio – primo fra tutti quello dell’economia comportamentale di Kahnemann e Tversky – continua a rimanere sempre cruciale il ruolo che si attribuisce al comportamento di “scelta”, che si conferma la caratteristica primordiale individuale. Ed ancora un’altra volta, per conseguenza, il “valore” e il “limite”.

Noi viviamo oggi nella società “dei consumatori”, in cui qualsiasi cosa si trasforma in merce.

Il limite non esiste, possiamo accedere facilmente a tutto e subito: anche se è domenica i negozi sono aperti o tutt’al più possiamo ordinare online; non abbiamo abbastanza denaro ma possiamo chiedere facilmente un finanziamento. Non siamo chiamati a scegliere, dovremmo compiere uno sforzo troppo grande: distinguere ciò che sembri più adatto al nostro fine, più gradevole al nostro gusto o più conveniente alle circostanze. Ma anche ammettendo di saperlo fare, perché spingerci così oltre quando più semplicemente possiamo consumare esattamente ciò che la società dei consumi ha da offrirci? Non siamo, infine, in grado di attribuire valore a nulla di cui disponiamo: la nostra corsa sfrenata e irrazionale al consumo ha come unico fine quello di differenziarci dai nostri pari, per ostentare più alti livelli di consumo e ribadire il nostro status. Non siamo noi ad attribuire valore alle cose bensì lo status che esse creano e che ci collocano nella scala sociale, innescando una sorta di competizione “posizionale”. Se paradossalmente, ma è proprio ciò che sta accadendo in questi drammatici giorni, fossimo isolati, non avrebbe alcun senso accumulare beni di questo tipo, in quanto per trarne beneficio il vincolo è che qualcuno ne osservi il loro consumo.

Allora, per la prima volta (forse?) possiamo scegliere o pensare di non essere così impotenti di fronte a tutto questo, smettere di stare a questo gioco e trovare l’impulso per incoraggiare il senso della possibilità, che è alla base del nostro successo evolutivo, e adattare alle nostre nuove necessità l’ambiente che ci circonda? E così, insegnare ai nostri figli, assediati dalla televisione e dalla pubblicità, che non è affatto vero che senza questo o quell’oggetto si è dei perdenti o che il possesso li possa rendere più importanti; al contrario, la condivisione con gli altri; e così, riscoprire l’importanza del tempo, non quello da dedicare “all’ufficio” per accumulare più denaro, bensì da impiegare nelle relazioni, senza le quali si va inevitabilmente incontro alla solitudine, alla diffidenza e all’instabilità; e così, smettere di prendere parte alla competizione per la visibilità elencando le innumerevoli esperienze di vita, se in realtà non ci hanno reso felici, ma al contrario più isolati, alienati e prosciugati da un’inutile e dannosa frenesia.

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Economista - Business analyst