Tra il 430 e il 427 a.C. Atene fu afflitta da una gravissima epidemia di peste o di un altro morbo (c’è chi ipotizza tifo o vaiolo) che provocò la morte di migliaia di persone. La narrazione di Tucidide, scevra da superstizioni e paradigmi religiosi, fu distaccata, oggettiva, scrupolosa. Nel suo scritto non mancano certo momenti di commozione ma la grandezza dello storiografo risiede nell’essere stato forse il primo e l’unico tra i suoi contemporanei a offrire un’interpretazione scientifica del morbo, laddove per i più si trattava di una punizione divina. La sua narrazione, spesso abrasiva, non è quindi fine a se stessa, ma è un modo per restituire una visione incorrotta della tragedia. Molto spazio nel racconto è dedicata al comportamente della popolazione: da una parte gli ammalati, prossimi alla morte, e dall’altra i soccorritori, tra cui molti medici, che, mossi a pietà, cercavano di aiutare ma finivano anch’essi per contagiarsi e soccombere alla malattia e alla solitudine, rintanandosi nelle case per evitare di contagiare a loro volta.
Lo stesso Tucidide si ammalò, ma sopravvisse alla malattia. Grazie alla sua personale esperienza di malato e alla scienza medica che andava sviluppandosi proprio in quel periodo, fu in grado di fornire una descrizione estremamente dettagliata del morbo, comprensiva dei sintomi, degli effetti e della sua evoluzione, con l’obiettivo di offrire alle generazioni future quante più informazioni possibili per combatterla nel caso in cui si fosse ripresentata.
La lezione di Tucidide oggi più che mai ci appare attuale, oggi che abbiamo i mezzi per rifuggire le teorie complottistiche e i dettami religiosi. Non sarà la religione a salvarci ma la scienza. Come racconta lo stesso Tucidide, non è attribuendo valore salvifico alle preghiere e al paranormale che sarà possibile scampare a un morbo di tale portata. La fede può però offrire conforto, che non è poco, e le due cose possono lavorare in sintonia nelle nostre vite, senza necessariamente seguire istanze dicotomiche.