Alimento, simbolo, cura: il nuovo tempo del pane nei giorni della pandemia

Il Covid-19 sta caratterizzando un periodo storico in cui nulla è stato tanto al centro dell’attenzione – oltre alla salute – quanto il mondo dell’alimentazione, che nei primi giorni della pandemia si è trasformato in un vero e proprio bisogno di approvvigionamento a lunga data, svuotando gli scaffali dei supermercati di quegli ingredienti alla base del nostro mangiare. Lievito e farina sono letteralmente andati a ruba, lasciando perplesse molte persone che della pratica della panificazione prima ne facevano una sorta di amarcord, e che invece oggi il fenomeno pane ha reso ancora attualissima, con buona pace dei nostalgici.

Sull’importanza che il pane ricopre in antropologia ho già scritto, ma di certo nuovi comportamenti sono scaturiti da questa pandemia, che da antropologa dell’alimentazione non potevano non colpire la mia attenzione.

Va fatta innanzitutto una precisazione: il pane ha assolto un compito importantissimo nella nostra storia: quello di essere l’alimento di base. Esiste una sorta di grammatica dell’alimentazione la cui più importante regola universale è quella che vede il pasto composto da un alimento base, che fornisce l’essenziale di ciò che viene considerato come nutrimento, associato a un companatico a base di ingredienti vari (carne, pesce, latticini, verdura e condimenti vari). Il companatico ha il compito di insaporire l’alimento base, di norma abbastanza neutro nel gusto. La formula è quindi molto semplice: nutrimento + companatico dove, a un’analisi più approfondita, scopriremo che l’alimento base è  sempre un farinaceo, mentre il companatico assume forme diverse. Se al farinaceo spetta il compito di apportare quante più calorie possibili (necessarie a generare forza lavoro) al companatico spetta il compito di colmarne le carenze, apportando amminoacidi, vitamine e sali minerali.

In virtù dell’essere un vero e proprio nutrimento, il pane è considerato primario nell’alimentazione, in quanto sazia, da forza e vigore. Il companatico d’altro canto è secondario, è un piacere utile a condire ciò che è imprescindibile sulla tavola: è la mancanza di nutrimento, non di companatico, che fa patire la fame. Ecco perché il pane è stato il nutrimento dei nostri antenati durante buona parte della storia europea, e non solo.

L’attuale pandemia mi ha permesso di osservare una serie ulteriore di fenomeni che investono la panificazione, e che trovo non solo interessanti ma anche portatori di nuove consapevolezze. In particolare questi mi hanno colpita:

  • Gli effetti confortanti della panificazione;
  • la volontà di sentirsi in qualche modo autosufficienti nel produrre un alimento così basilare dell’alimentazione.

Entrambi questi aspetti si compenetrano e, al contempo, sono in grado di dirci molto su come le persone hanno provato a reagire in una situazione cosi estrema come lo è stata la quarantena.

Cosa ci ha portato quindi a rimettere le mani in pasta?

In un momento di grande smarrimento le persone hanno sentito il bisogno di di riprendere il controllo, e lo hanno fatto “riattivando” comportamenti alimentari di autoproduzione casalinga, in gradi farli sentire indipendenti rispetto a un contesto sociale vissuto come pericoloso. Questo con più scopi; far fronte a un’eventuale carenza alimentare (la paura degli scaffali vuoti), avere cura dei propri familiari e tenere sotto controllo l’ansia crescente.
Attraverso un gestualità ancestrale, come quella della panificazione, si è cercato di far fronte a tutte queste necessità, e non è un caso.

L’incetta di farine ci ha riportato a stipare uno degli ingredienti che assicura, nel lungo tempo, la presenza proprio di quell’alimento primario che è il pane, è che sfama anche senza il companatico. Mettere da parte la farina è assicurarsi il pane, con tutto il valore simbolico che questo comporta.

Panificare poi, secondo Susan Whitbourne, professore di scienze psicologiche e neurologiche all’Università del Massachusetts,  non è solo preparare del cibo ma quando è fatto per gli altri può essere accompagnato da una serie di benefici psicologici. Vi è tutta una serie di letteratura scientifica che attesta la connessione tra espressione creativa e benessere generale. Che si tratti di dipingere o fare musica o panificare, c’è un sollievo dallo stress che le persone ottengono dall’avere una sorta di sfogo e un modo per esprimersi.

E’ indubbio che alcune volte, quando non si trovano le parole, solo il cibo riesce a comunicare perfettamente cosa si tenta di trasmettere e cosa si prova.

Prima dell’epidemia di Coronavirus si donava spesso la pasta madre, ora non solo si è tornati a farlo (o la si prepara con più o meno con successo in casa, visto che il lievito è quasi introvabile nella grande distribuzione), ma si donano anche i frutti del nostro forno e del nostro impastare. Pane, dolci, pasta fresca vengono in maniera, più o meno creativa, scambiati all’interno del proprio condominio. Preparare prodotti da forno con l’intenzione di donarli è una forma di altruismo – è un sacrificio che fai per qualcun altro – e i benefici di questo atto altruistico sono stati studiati attentamente.

C’è anche un valore simbolico nel cuocere per gli altri, perché il cibo ha un significato sia fisico che emotivo“, afferma la dottoressa Whitbourne. Il pane ha sempre rivestito un’importanza nel consumo comunitario del pasto, nella necessità di dividerlo e di offrirlo agli altri, di scambiarlo, di ostentarlo per affermare posizioni di prestigio sociale. La presenza di questo alimento all’interno degli eventi festivi e cerimoniali ci racconta delle sue valenze magiche e simboliche, tanto da divenire offerta votiva, dono o talismano.

In un periodo tanto drammatico come quello che stiamo attraversando, la potenza simbolica del pane riacquista valore e significato, e ci ricollega a tempi lenti, arcaici. A nuovi modi di stare con gli affetti e con gli altri, e questo grazie all’ancestrale pratica di mettere le mani in pasta. E’ questo il nuovo tempo del pane.

Antropologa dell'alimentazione