Pubblichiamo un estratto dell’introduzione del libro di Luigi Di Gregorio, “Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico” (Rubbettino editore, 2019). Ringraziamo l’autore per averci permesso di condividere le sue interessanti riflessioni con i lettori di Ponente Magazine e la community del Centro Studi Occidentali. Il suo studio, senza vocazioni pedagogiche, ci invita a percorrere le voragini della democrazia che oggi temiamo e a considerarle nuovi obbligati solchi. Invitiamo alla lettura del volume.
Istinti, istanti e immaginario sono tre parole-chiave di questo lavoro. Riassumono, a mio avviso perfettamente, le killer application della società contemporanea. E, solo di conseguenza, della politica. Chi non lavora sugli istinti – cioè sulle emozioni/percezioni – in un’ottica di brevissimo periodo e senza costruirvi su una narrazione potente è tagliato fuori, in qualunque settore. Che sia un’azienda, un partito, una pop star o un prodotto di consumo, nessuno può fare a meno di ragionare in questi termini e di costruire un racconto e un profilo d’immagine tarato su queste “esigenze”.
Ma se è così, che fine hanno fatto il consumatore e l’elettore razionale, la democrazia come regno dell’agire comunicativo e dell’opinione pubblica informata, il Web come strumento foriero di intelligenza collettiva? Come mai post-verità, fake news, populismo, narcisismo, marketing politico, echo chamber e polarizzazione dominano il dibattito pubblico in un terno presente incoerente, esplosivo e a “frammenti”? E come mai la democrazia arranca in termini di rendimento e di legittimazione proprio quando sembrava trionfante e priva di alternative praticabili in gran parte del mondo?
È ciò a cui provo a rispondere in questo lavoro. E la tesi è la seguente: la democrazia è affetta da demopatìa. È malata perché si è ammalato il demos.
Trattandosi di una patologia (o quantomeno di un malessere), il volume è strutturato seguendo il modello “clinico”. Il paziente è la democrazia liberale.
La parte I si concentra sui sintomi della crisi democratica contemporanea: calo della partecipazione elettorale, aumento della volatilità, incremento del numero dei partiti, riduzione della durata dei governi, crescita dell’utilizzo degli strumenti di democrazia diretta, esplosione dei partiti populisti che vanno a sommarsi agli indicatori ormai “classici” relativi al calo della fiducia nei politici di professione, nei partiti e nelle istituzioni rappresentative. […]
La parte II riguarda la diagnosi del malessere democratico. A differenza della maggior parte dei lavori politologici, ho provato a spiegare il perché dell’attuale fase critica impiegando non tanto variabili politiche, quanto culturali e psico-sociali, lette in un’ottica diacronica. La tesi di fondo, come detto, è che la democrazia è malata perché è malato il demos. E il demos si è ammalato “inevitabilmente” (una sorta di malattia autoimmune e degenerativa) perché la sua patologia è il derivato della lunga transizione alla postmodernità: individualizzazione, perdita di senso sociale, fine della metanarrazioni, crisi del sapere, delle istituzioni e delle autorità cognitive, narcisismo, nuove percezioni e concezioni di tempo e spazio, trionfo della sindrome consumistica e della logica totalizzante dell’“usa e getta”, fine dei luoghi pubblici relazionali e proliferazione dei nonluoghi.
I driver principali di questa transizione sono stati (e sono ancora) i mass media, interpretati seguendo la tesi di McLuhan: il mezzo è il messaggio. I media dell’era elettronica e della sottofase digitale hanno accelerato la transizione postmoderna, incrementando le logiche vincenti della società dei consumi: istinti, istanti, immaginario, neoreale mediatico e percepito più rilevante del reale “empirico”, politiche simboliche ed effetti annuncio che dominano sulle politiche concrete e sulle “cose fatte”. La democrazia che ne deriva, mediatizzata e personalizzata, sembra piuttosto una “sondocrazia” permanente, i cui leader assumono le caratteristiche dei follower (inseguitori dell’opinione pubblica) e in cui l’opinione pare piuttosto emozione pubblica, tanto è diventata volatile e volubile in una dinamica istantanea. […]
La Parte III si occupa infine della terapia. Dopo aver elencato e analizzato diversi tentativi per uscire dall’attuale fase di reflusso democratico già presenti in letteratura, il volume suggerisce di ragionare su una soluzione che non guardi il passato (una retrotopia, per dirla con Bauman) e che non sia palesemente utopica in questo scenario storico e psico-sociale. Una terapia funzionale che si potrebbe definire “democrazia dell’immaginario”.
Se la politica, cioè, diventa prevalentemente una battle of narratives, in un contesto in cui la “realtà aumentata” mediatica prevale su dati e fatti, e in cui la verità risulta ormai “personalizzata” e iperframmentata, occorre manipolare quest’ultima per venderla, difendere il regime liberal democratico costruendo una narrazione positiva che isoli e controbilanci gli effetti delle narrazioni “tossiche”. In altri termini, bisogna lavorare per trovare una via d’uscita dalla crisi che non sia contraddizione con le tendenze psico-sociali e culturali, bensì sintonica con esse. […]
Viviamo nel regno del percepito e nella società del sensation seeking, in cui trionfa la legge di Thomas: “Se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro coneguenze”. Non ci resta che investire nella definizione della realtà e confidare nelle conseguenze.