Perché l’Italia non deve vendere l’anima al diavolo

Mi è capitato di rivedere recentemente un vecchio documentario sulla visita di Sandro Pertini negli Stati Uniti d’America. Pertini visitò ufficialmente gli Usa come Presidente della Repubblica Italiana dal 24 marzo al 2 aprile del 1982 e fu accolto con tutti gli onori dal Presidente Ronald Reagan.

Nel suo discorso di saluto il vecchio presidente sottolineò con voce sicura che «l’amicizia tra l’Italia e gli Stati Uniti non risponde alla fredda esigenza di un calcolo diplomatico, ma fonda le sue radici nel terreno fecondo e di comuni intenti che ci proponiamo nel quadro dell’alleanza atlantica nel momento attuale».

Aggiunse, inoltre, un dettaglio non da poco: «Signor Presidente – disse – la naturale collocazione dell’ltalia nell’ Alleanza Atlantica ed il suo impegno nella solidarietà Occidentale non vanno disgiunte dalla convinzione profondamente sentita nel mio Paese, che sia indispensabile procedere al rafforzamento di quell’altro polo di stabilità e di sicurezza per la situazione mondiale che è l’unione politica del Vecchio continente».

Spesso in questi giorni sentiamo parlare di nuova Guerra Fredda, questa volta tra Usa e Cina, di primato tecnologico, di tensioni diplomatiche tra superpotenze, di cyberwar. In effetti è molto difficile orientarsi tra gli interessi dei singoli Stati in questa fase in cui una crisi economica senza precedenti potrebbe investire praticamente il mondo intero e gli equilibri geopolitici sono in costante ridefinizione, complice anche l’impatto della pandemia.

È di tutta evidenza che gran parte del riposizionamento si sta giocando sul piano commerciale e il mostruoso debito pubblico dell’Italia orienterà il nostro paese ad intraprendere una strategia di realpolitik finalizzata a non perdere nessuna delle opportunità che la girandola di interessi incrociati porterà a galla, sino al punto più rischioso di “vendere l’anima al diavolo”.

Ecco, è questo il fulcro della riflessione che l’intera classe politica dovrebbe fare ma che, distratta dalle solite diatribe di politica interna, fatica a mettere a fuoco: ci si può muovere in un mare così tempestoso sulla base esclusiva degli interessi economici e delle “fredde esigenze di calcolo diplomatico” e su questa base costruire alleanze geopolitiche?

Così, un po’ ad intuito e un po’ con l’esempio che deriva da secoli di storia, sembrerebbe che le alleanze strette sulla sola base economica, finanziaria o commerciale durino tanto quanto l’interesse del partner più forte e non vi è garanzia di non-ostilità alla rottura del patto, anzi, molto spesso si passa esattamente dallo stato di alleati a quello di rivali.

La risposta può venire dalla “parola”, che ha sempre un senso interpretabile. Nel gergo della diplomazia italiana si è sempre dato un grande valore al termine “amicizia”, e abbiamo riconosciuto ai nostri tradizionali alleati il ruolo di “amici”, ruolo che non abbiamo avuto difficolta ad estendere anche ai popoli.

L’amicizia è un sentimento mentre l’alleanza è una condizione: per essere amici non è sufficiente un comune interesse economico, commerciale o politico. Per essere amici occorre avere una base valoriale comune, una storia che si interseca, comuni sofferenze e traguardi raggiunti. Se è facile passare da alleati a rivali, è molto più complesso abbandonare l’amicizia per l’inimicizia.

È urgente, dunque, nei prossimi mesi interrogarsi sui princìpi su cui è fondata la nostra Repubblica che sono quelli irrinunciabili dell’Occidente, riavvolgere il “filo di Arianna” e ripercorrere la nostra storia per recuperare alcuni pezzi che forse abbiamo dimenticato per strada, guardare con maggiore benevolenza ai nostri vicini d’Europa e ritrovare in loro gli amici degli ultimi 70 anni di storia nazionale senza dimenticare che tra amici si può parlare senza filtri e, se serve per andare avanti insieme e meglio, ce le si può anche suonare di santa ragione. 

A questo proposito voglio ricordare un altro episodio della visita di Pertini negli Stati Uniti: durante la conferenza stampa congiunta con Reagan ad una domanda di un giornalista statunitense che chiedeva al Presidente della Repubblica se gli piacessero gli Stati Uniti, Pertini risposedi si, e soprattutto disse che apprezzava gli Stati Uniti perché la loro storia corrisponde un po’ con la storia italiana dal momento che entrambi i popoli, in epoche e condizioni differenti, hanno dovuto liberarsi dallo straniero per raggiungere la propria indipendenza. A queste parole, dallo stormo di giornalisti si levò una risata che non lasciò indifferente Pertini il quale si risentì molto e chiese spiegazioni.

Nessuna spiegazione plausibile di quel ridere fu data, proprio perché forse non c’era, e l’imbarazzo di Reagan fu tale che l’innegabile carisma del Presidente americano fu per un momento sovrastato dalla credibilità e dalla dignità di Sandro Pertini, le stesse di tutto il popolo italiano. Pertini svuotò la pipa, la ricaricò con del tabacco fresco e con difficoltà accese un cerino americano. Reagan coi tempi televisivi utili a rompere il momento disse «questi fiammiferi non sono troppo efficaci» e Pertini non perse l’occasione: «il che sta a dimostrare che anche gli italiani sanno fare qualche cosa di buono perché i miei si accendono subito!»

Presidente del Centro Studi Occidentali