Richard Jewell e i destini (cinematografici) americani

In queste settimane, già rese critiche dalla pandemia del Covid-19, l’America è stata attraversata da una forte tensione sociale scaturita poi in forti proteste di piazza dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, ucciso brutalmente da un poliziotto bianco. Il caso, l’ennesimo di una serie, ha esasperato una situazione già tesa da anni per via di una questione razziale mai risolta. In America il razzismo non è stato solo comportamento degradante di molte persone bianche ma anche legge vera e propria su cui si è costruito un sistema di potere iniziato con la fondazione stessa degli Stati Uniti.

L’industria cinematografica, molto influente sul pensiero delle generazioni più giovani, ha avviato un processo per dare spazio ai punti di vista delle minoranze, un’iniziativa destinata a cambiare il modo in cui saranno narrate le storie nei prossimi anni e il definitivo canto del cigno di una serie di autori e di uno stile di cinema che, con intelligenza, avevano contribuito a cantare l’epica americana.

Difficilmente vedremo dei nuovi Clint Eastwood o degli epigoni di John Milius e Paul Schrader nel cinema americano del futuro. Questa rappresentazione del mito dell’individualismo e dell’eroe anarchico e sottilmente sovversivo che sfida gli Dei e la Morte era d’altronde un’espressione del mito dell’Ovest bianco, dei Robert E. Howard e dei Frank Frazetta ma anche di un  cantore liberale di un’America ancora non definitivamente capitalista come Walt Whitman, e oggi è acciaccata  e tramontata.

Conan può morire di vecchiaia, dunque? È finito il tempo dei guerrieri bianchi alla Theodore Roosevelt? Vedremo, ma guai a nasconderli. Intanto un esempio di un cinema realista e anti ci è stato dato proprio da Clint Eastwood con il suo ultimo film, Richard Jewell (2019), accolto tiepidamente dalla critica e ignorato dal pubblico, forse per la raffigurazione di un eroe certamente non progressista e per l’infelice scelta, va detto, di rappresentare un personaggio femminile chiave in modo troppo superficiale e banale.

Non certamente un film che lascerà il segno al contrario di Gran Torino (2008) o, in piccolo, anche di American Sniper (2014), per non parlare poi di titoli ormai universalmente riconosciuti come Mystic River (2003) o Million Dollar Baby (2004), eppure Richard Jewell ha dalla sua tanti particolari spunti che avrebbero potuto suggerire un dibattito serio sui punti di vista in una cultura e in una società (possiamo scindere le due idee?) sempre più stratificata e polarizzata, anziché essere ignorato e bollato come “film di destra” da molto pubblico anche liberale che con arroganza, dopo Gran Torino, aveva tirato per la giacca un autore con una carriera e degli ideali ultra decennali per cercare di portarlo dalla propria parte e “normalizzarlo”.

È un grande fuck you quello gridato da Clint, in nome della libertà di non uniformarsi e tenere salda dentro di sé un’idea, libero e fieramente sovversivo come il suo “fuorilegge” Josey Wales che combatte degli assassini unionisti e finisce per stringere un patto di sangue con gli Indiani, i primi abitanti dell’America poi distrutti proprio dai vincitori della guerra civile, in un segno di accettazione e rispetto reciproco, anche senza la necessità di capirsi, e quindi di convivenza pacifica. La disponibilità a confrontarsi e a parlarsi per arricchirsi vicendevolmente, senza nessuna volontà di fare lavaggi del cervello, sembra una visione fantascientifica al giorno d’oggi dove, da una parte e dall’altra, si tende a identificare nell’altro un nemico per abbatterlo e tornare a crogiolarsi nella propria bolla. Per questo abbiamo bisogno anche dei Richard Jewell, nella realtà e nella finzione. Il film racconta le vicende di una guardia di sicurezza con un amore smisurato per le forze dell’ordine e le armi, legatissimo alla mamma tanto da vivere da adulto ancora con lei, che grazie al suo zelo si accorse della presenza di una bomba durante un concerto alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 e fece allontanare quante più persone possibile, evitando così una strage di enormi proporzioni (la bomba esplose e fece 1 morto e 111 feriti). Richard però viene ingiustamente sospettato dall’FBI e, di conseguenza, diffamato dai giornalisti, perché rispondeva all’esempio di esaltato terrorista del White Power. Inizia così il calvario di un innocente cittadino, sospettato sulla base di nulla, aiutato da un avvocato e dalla madre, che deve scagionarsi e riabilitarsi contro l’intero sistema.

È interessante notare come la produzione di Eastwood negli ultimi dieci anni si sia interessata sempre di più alla lotta del singolo contro un sistema di potere disumanizzato e venduto, sia esso la politica, la stampa o la stessa forza federale. Che il “villain” qui sia l’FBI non è un particolare da nulla, anzi ne passa di differenza dal detective arrabbiato Callaghan in forza alla polizia, all’eroe dell’Esercito Americano di American Sniper fino agli agenti che sono diretta emanazione del governo centrale come in questo caso. L’esercito è ciò su cui si basa il senso della conquista americana, amato anche dai democratici, mentre il governo federale è visto da molti come il più grande dei nemici. Non è neanche un particolare da sottovalutare però che il vero terrorista fosse un suprematista bianco e cattolico, desideroso di punire il rispetto per le minoranze e l’idea di globalismo propagandati dai giochi olimpici, mentre Jewell, sicuramente ultra conservatore, avrebbe probabilmente dato anche la vita per contrastare una follia del genere.

Il film politico di Eastwood sarebbe potuto dunque essere un tassello per un mosaico di analisi simili, fondamentali per capire la nostra società ed evitare il tracollo della democrazia e la vittoria dell’ignoranza e dell’odio. Abbiamo bisogno di non abbandonare i Richard Jewell nella realtà, persone che hanno serie difficoltà a integrarsi anche per l’aspetto fisico e che hanno scelto il rispetto per la legge e che per questo sono diventati odiati come dei reietti (il body shaming tra l’altro a molti va bene se rivolto contro persone di destra o con valori religiosi considerati sorpassati), non possiamo abbandonarli a livello sociale in primis, e in secondo luogo nella rappresentazione cinematografica. Altrimenti, tutti noi come amanti dei film perderemmo qualcosa. E dovremmo auspicare anche il ritorno al racconto classico, all’immedesimazione totale nella storia che si sta raccontando, con il focus puntato su questa e sui personaggi, senza inganni e deviazioni, senza fuochi artificiali che cerchino di distrarre il povero spettatore da voragini di idee, visioni fiacche e pusillanime e noiosi conformismi narrativi.

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