L’epoca della cultura pop moderna potrebbe essere descritta con un’immagine presa a prestito dal capolavoro Yellow Submarine (George Dunning, 1968), il film d’animazione dei Beatles realizzato al massimo della loro libertà creativa, precisamente dalla scena in cui un piccolo mostro divora tutto quello che esiste intorno a lui finendo col divorare se stesso. La cultura di massa, che non è mai stata così di massa come oggi probabilmente, e lo è in modo quasi violento perché arriva a manifestare la propria ingombrante presenza anche a chi non è interessato, è un cannibale che avendo finito il cibo mangia un pezzetto di se stesso all’infinito. E la qualità del cibo è chiaramente scarsa se non anche pericolosa, come uno di quei wurstel che si trovano in certi super mercati discount dai nomi improbabili fatti di scarti di carne compressi insieme. Ecco, la cultura di massa moderna è quel wurstel. Poi per carità, c’è chi ne gode di quell’ammasso di carni coperte di additivi e insaccate. L’autore di questo articolo per esempio ne è ampiamente ghiotto, specialmente di un tipo insaccato in una galassia lontana lontana, ma come l’immenso Charlton Heston nel film 2022 – I sopravvissuti (Soylent Green, Richard Fleischer, 1973) anche in questo caso alla fine si prende coscienza di quello che si è e di quello che si è mangiato. Se è vero che siamo ciò che mangiamo, è vero che oggi siamo anche quello che vediamo, o di cui siamo assuefatti. Un’immagine stroboscopica video ludica che pulsa tra le sinapsi dei nostri cervelli abbagliandoci con delle luci molto forti, molto colorate, e attraendoci come il notoriamente seduttivo e mortale canto delle sirene. La cultura cosiddetta pop è la nuova base culturale occidentale, è quella cultura di massa che ha sostituito qualsiasi ricerca di novità per vivere di se stessa nella propria gloria decadente, fingendo di non invecchiare mai, auto-rigenerandosi nell’atto di consumare la linfa dei propri miti (im)mortali, ringiovaniti dalle rughe e riportati nel mondo dei vivi digitale dalla morte reale. La morte diventa artificiale, un concetto che sarebbe piaciuto al creatore di mondi Philip K. Dick, che anzi di questa cultura-diva si era fatto precursore, anticipando il post-modernismo di Ballard o dei futuri William Gibson e Forster Wallace, che pure avevano capito tutto, ma Dick era andato oltre e lo aveva fatto prima, aveva unito lo spazio interno (lo spazio della mente umanadi cui James Ballard voleva si occupasse la fantascienza) con quello esterno astrale, divenendo un occhio mistico prima deriso e poi innalzato a visionario dai fruitori contemporanei. Dick con i suoi Valis e i suoi Palmer Eldritch e i suoi uomini negli alti castelli, figure allucinate e messianiche, abitatori delle intercapedini delle varie realtà, simulacri divini e trasmigratori di corpi, alla fine è diventato sì un attendibile scrutatore nell’oscurità. Aveva visto anche questo futuro, dove adulti con menti adolescenti vivono delle vite nel non esistente, compiacendosi di memorie magari molto edulcorate della propria infanzia, periodo più o meno felice e caldo per tutti, per non guardare in faccia il tramonto del presente, eppure non capendo che proprio rinunciando a guardarlo lo si fa tramontare. La fantascienza, spesso descritta come premonitrice dei possibili sviluppi neri del futuro, è invece molto più spesso analisi delle psicosi e delle ossessioni del presente.
È qui che rientra molto bene Ready Player One, diretto da Steven Spielberg nel 2018 e tratto dal libro omonimo di Ernest Cline. Chi, se non l’uomo che la cultura pop cinematografica l’ha praticamente inventata, poteva dirigerne la summa e infine, si spera, chiuderla? Qui bisogna fare una pausa post moderna all’interno di questo articolo molto poco post moderno, perché quando restringiamo il campo alla cultura popolare cinematografica bisogna cambiargli nome. Il nome più adatto diventa cultura nerd, ovvero quello stagno immenso e oggi putrido che ha creato tutti i miti della moderna cultura di massa. Una volta si sarebbe detto racconto popolare, ed è vero che molta epica antica di eroi e mitologie era fatta per dare una forma all’origine dell’uomo, ma ancora non esisteva lo scopo commerciale. Tutto ciò che è nerd, una volta di nicchia, è oggi cultura dominante degli adulti che non vogliono essere adulti e conducono doppie vite dickiane nei mondi del non esistente, mentre alle nuovissime generazioni è probabile che freghi molto poco. Un film come Ready Player One, ad esempio, è un tentativo di parlare con generazioni più vecchie, nonostante tratti di videogiochi ed eccessi fantascientifici.
In breve, nell’anno 2045 le varie catastrofi sociali e naturali hanno rovinato la vita sulla Terra e gli esseri umani vivono in megalopoli fatte di baracche metalliche dove la spazzatura si mischia con l’alta tecnologia. Come via di fuga dalle loro vite deprimenti, le persone si immergono nel mondo virtuale di OASIS, un infinito universo alternativo dove possono prendere parte a numerose attività per lavoro, istruzione e intrattenimento. Quando il fondatore di OASIS muore, lascia le chiavi per ottenerne il controllo all’interno del gioco, è così che si scatena una lunghissima caccia avventurosa tra i buoni, un gruppo di ragazzi di differenti etnie, e la malvagia corporation che vuole controllare tutto attraverso biechi inganni. La trama ricorda effettivamente molti film per ragazzi degli anni ‘80, molti dei quali pensati e prodotti dallo stesso Spielberg, ma non è un caso; l’autore del libro voleva ricreare un gigantesco omaggio consapevole (post-moderno) per descrivere tutto ciò con cui è cresciuta la sua generazione e gli effetti che su di essa ha avuto quell’immaginario fatto di cinema, libri, cartoni animati, fumetti, videogiochi, colonne sonore. Non è qualcosa da poco, perché quel tipo di cultura nerd appunto è la base di tutti i miti cinematografici di massa. La particolarità infatti del libro è che in questa avventura giocosa e innocente c’è un vastissimo riferimento a tutti questi miti, pensatene uno anche di nicchia e lo troverete, tratto da cinema e fumetti e via dicendo. L’autore parla ai suoi stessi lettori, osserva questa storia da fuori insieme a loro, come un visitatore che ammiri un reperto in una teca con tanto di didascalia esplicativa e dia di gomito al compagno, e vi trova nel suo svolgersi una doppia chiave di lettura che prova a spiegare com’è cambiato il mondo e cosa dovrebbero farne loro ora che non sono più bambini. C’è una grossa differenza dalle avventure degli anni ottanta che vivevano senza la consapevolezza di essere espressione sincera e pura della propria epoca e non volevano analizzare niente e nessuno. Oggi questa crisi identitaria della cultura occidentale porta a una crisi esistenziale in cui non si riesce a produrre un risultato che sia purezza della propria epoca, come si diceva prima si mangia un pezzetto del proprio passato per far passare la fame. Per paura si va indietro, si ritorna nel ventre spielberghiano, ci si rifiuta di affrontare una nuova epoca culturale occidentale per timore di perdere il confronto, svuotati anche da qualsivoglia altro appiglio concreto. D’altronde gli ideali politici hanno fallito, i miraggi di benessere senza tempo hanno fallito, le ricerche spirituali di cui avremmo bisogno sono bollate dagli sciocchi come oscurantismi mentre gongolano nella propria mediocrità. Ciò che è rimasto è lo strapotere di immense corporazioni in cui i fondatori, e solo loro, possono macinare miliardi di dollari al giorno nei propri conti personali, facendosi addirittura passare per colonne del progresso occidentale inattaccabili perché necessarie (davvero?), vitelli d’oro a cui sacrificare se stessi. Qui si scopre che la realtà non è per nulla come un film degli anni ‘80, purtroppo. In quanto alla cultura dell’intrattenimento, cosa sono i supereroi se non quei miti attempati e rassicuranti che si ripresentano con nuovi effetti speciali? E il ritorno infinito di saghe del passato? E tutto questo non appartiene forse a quel mondo vastissimo di prodotti di massa, ma senza più afflato, senza più nessuna gioia creativa, senza nessuna forza che muova l’animo delle persone? Perché è fondamentale ricordare che questa industria non parla ai giovanissimi, ma parla ai bambini vecchi di allora. La fantascienza espressione delle ansia del presente, si diceva. Forse ha prevalso l’ansia di non risolvere le paure mondiali che la Storia ci ha messo di fronte?