Due notizie negli ultimi giorni hanno più di tutte attratto la mia attenzione per il loro carico emblematico. La prima, di questa settimana, riguarda la richiesta del governo belga al personale medico positivo al Covid di continuare a lavorare per scongiurare il collasso del sistema sanitario; la seconda, sempre di questa settimana, sono le parole pronunciate dal direttore generale del ministero della Salute, Gianni Rezza, il quale, durante la conferenza stampa del 27 novembre (giorno in cui in Italia sono stati registrati oltre 200 morti) ha spiegato che il “numero di decessi è ancora relativamente limitato”.
Analizzando i dati della pandemia costantemente aggiornati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ci si rende immediatamente conto di come l’Occidente abbia senz’altro fallito di porre in essere misure di contenimento efficaci del virus nel corso della prima ondata di contagi, ma anche – fatto ancora più significativo e drammatico – di come abbia parimenti fallito di definire e attuare misure preventive in vista della prevista seconda ondata. E ciò è vero soprattutto con riferimento agli Stati europei che hanno avuto diversi mesi di “tregua” a disposizione per prepararsi (ad eccezione, forse, della Germania che rispetto agli altri ha fatto registrare dati meno drammatici).
Ciò che appare indubbio – sempre stando ai sopra richiamati dati dell’OMS – è anche il modello estremo oriente. Cina, Giappone e Corea del Sud (rispettivamente, alle posizioni n. 203, 158 e 167 per numero di contagi in rapporto alla popolazione) parrebbero viceversa essere riusciti laddove l’Occidente ha fallito. E questo nonostante la maggiore vicinanza al presunto luogo di origine del virus.
Il successo o il fallimento del modello, così sommariamente riassunto, potrebbe invero essere stato determinato da molteplici fattori, da quello tecnologico a quello sociale, da quello climatico a quello meramente contingentale. Ma la variabile più significativa va individuata probabilmente nella risposta politica e organizzativa che ciascun paese ha implementato al proprio interno, sia in termini di rapidità che di efficacia.
Al riguardo, la cosa più sorprendente è rilevare l’inesistenza, o perlomeno l’insufficienza, di forum di consultazione internazionale, non solo con riferimento al coordinamento temporale delle misure di prevenzione, ma anche con riferimento allo scambio informativo in materia di organizzazione dell’emergenza sanitaria che avrebbe di certo potuto, anche a livello meramente operativo, migliorare la risposta della macchina organizzativa.
E ancora più inspiegabili appaiono certe giustificazioni che sono state fornite, in quasi ogni paese dell’Occidente, per escludere in maniera inappellabile l’emulazione delle misure implementate in altri paesi, se non in misura minima. Mi riferisco, in particolare, al richiamato modello estremo oriente, bollato frettolosamente come troppo autoritario da mettere in pratica o non rispettoso di talune presunte prerogative democratiche che sarebbero intoccabili finanche di fronte al dramma di una pandemia.
Tale chiusura potrebbe senz’altro giustificarsi alla luce dell’interesse nazionale, dell’ordine democratico o di altri eventuali rischi di cui l’opinione pubblica è ignara. D’altro canto, tuttavia, non è nemmeno possibile giustificare o minimizzare, dati alla mano, il fallimento della risposta politica – organizzativa dei paesi dell’Occidente di fronte alle conseguenze della pandemia. Conseguenze che, in retrospettiva, appaiono chiare e che forse dovranno essere esaustivamente indagate con l’istituzione di una commissione d’inchiesta.
Questo fallimento, ritornando alle due notizie menzionate in apertura dell’articolo, si materializza in tutta la sua portata quando la società prende coscienza della propria rassegnazione, fino a considerare 200 morti al giorno “un numero ancora limitato di decessi” o quando finisce per accettare il rischio di farsi curare da personale medico contagiato.
A quanto pare, la pandemia deve aver contagiato anche il nostro tanto caro internazionalismo, che solo pochi mesi fa era in ottima salute quando, in tempo di pace, all’ordine del giorno c’era il punto sul riscaldamento globale, ma che ora, in tempo di guerra e alla prova dei fatti, è finito intubato in terapia intensiva.