La diplomazia di Papa Francesco nella terra di Abramo: un pellegrino di pace e ricostruzione

Trentatrè è un numero che evoca, per chiunque ci creda, immagini e significati profondi. Trentatreesimo è il viaggio apostolico che ha visto Papa Francesco in Iraq dal 5 all’8 marzo, trentatré è l’età di quel martire testimone di fede, deriso e massacrato per via di un credo. Ed è quella stessa fede che il Pontefice ha portato in viaggio nella terra di Abramo, patriarca delle religioni monoteiste, islam, ebraismo e cristianesimo. Francesco torna nei luoghi dove tutto ebbe inizio, posti che la Bibbia identifica come il Paradiso dell’Eden, terre che da ormai tre decadi sono sconvolte dalle tensioni all’interno del mondo islamico, martoriate dal terrorismo e ora, come tutto il mondo, in ginocchio per la pandemia.

Solo i nomi dell’itinerario di Francesco mettono i brividi, ma il pellegrino di pace si sa, non si lascia intimorire dalla paura. “È un dovere verso una terra martoriata da molti anni” afferma deciso. Dopo l’arrivo a Baghdad, subito la messa nella cattedrale siro cattolica, che i terroristi di al Qaeda trasformarono in mattatoio il 31 ottobre 2010, alla vigilia di Ogni Santi. Quarantotto vite umane, inermi fedeli massacrati mentre assistevano alla messa, appartenenti tutti ad una delle più antiche comunità cristiane in terra d’Arabia.

Non usa mezze misure il vescovo di Roma “Cessino gli interessi di parte, quegli interessi esterni che si disinteressano della popolazione locale. Si dia voce ai costruttori, agli artigiani della pace! Ai piccoli, ai poveri, alla gente semplice, che vuole vivere, lavorare, pregare in pace. Basta violenze, estremismi, fazioni, intolleranze!». La sua richiesta è accorata, “nessuno sia considerato cittadino di seconda classe” (del resto, non si risparmia nel chiedere che ci sia un’equa distribuzione dei vaccini). Spiega in modo netto a tutto il mondo che lo sta osservando, come ogni diversità religiosa, culturale ed etnica, è una preziosa risorsa a cui attingere, non un ostacolo da eliminare. “Si dia ai cittadini la possibilità di godere pienamente di diritti, libertà e responsabilità”. Un atto dovuto, quello del Pontefice, che risuona ancor prima come messaggio politico, fatto di concretezza e visione. Tuona e va avanti il pellegrino Francesco, atteso il 6 marzo a Najaf, città sacra degli sciiti, dove lo attende il grande ayatollah Said Ali Al-Sistani. È l’Iraq il primo paese musulmano a maggioranza sciita visitato dal Papa, un episodio inedito che fa pensare ad una nuova fase di comunicazione con l’islam mondiale dopo la firma del Documento sulla Fratellanza ad Abu Dhabi nel 2019. Si dice che Al-Sistani riceva pochissime persone. Incontrare Papa Francesco sottolinea dunque la volontà esplicita che i cristiani in Iraq vivano in pace in un perimetro di diritto che garantisca loro protezione, piena cittadinanza, e libero esercizio dei loro diritti. È forse tutta racchiusa in questo passaggio la forza del messaggio diplomatico che il pontefice ha portato in quelle terre tra minareti e campane.
Poi un passaggio a Nassiriya per raggiungere la piana di Ur, la città di Abramo, luogo simbolico per l’incontro interreligioso: «Il nome di Dio non può essere usato per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione” è questo il monito che lancia Francesco prima di dirigersi a nord, il giorno successivo domenica sette marzo, tra il Kurdistan iracheno e la piana di Ninive, e poi ancora a Mosul, città brivido che per tre anni fu la capitale delle bande nere dell’Isis, liberata nel 2017 al prezzo di oltre 40 mila morti.

A poche ore dall’arrivo del Papa, tra pandemia e devastazione, Mosul è deserta. Qui oggi, la missione forse più complessa è quella di riportare a casa chi è scappato, è rimettere insieme i pezzi. Tra la polvere sporca di sangue e il silenzio continuo, spiccano le mura di quella che fu la chiesa di Nostra Signora dell’Ora, (Saa’a in arabo) parrocchia cattolica romana, viva fino all’arrivo dell’Isis che ne ha danneggiato la struttura e saccheggiato l’antica biblioteca, contenente più di seimila volumi. Come racconta Padre Olivier Poquillon, nell’intenso reportage di Francesca Mannocchi per l’Espresso, la chiesa è stata fortemente danneggiata ma non distrutta perché usata come base dai miliziani, che ne hanno fatto la sede di un tribunale e un luogo di torture. Tutto ciò che l’ha violata in fondo forse l’ha anche risparmiata. Qui, racconta ancora padre Olivier, c’era il primo orologio della Mesopotamia, regalo dell’imperatrice Eugenia, la moglie di Napoleone III, e anche la prima scuola per giovani donne in Mesopotamia, e il primo impianto di stampa della grammatica curda, della prima bibbia in arabo. Dinnanzi a questa chiesa resistente vi è la moschea al-Nouri. È il luogo dove nel 2014 al Baghdadi proclamò la nascita del Califfato dello stato islamico, fino alla fine del 2016, data di inizio della sanguinosa guerra di liberazione.

Oggi a Mosul sono rimaste solo settanta famiglie cristiane. Prima del 2014 erano oltre cinquecento. Tra la polvere e le macerie umane, i minareti continuano nonostante tutto a sorridere alle campane. È da ciò che rimane che forse bisogna ripartire. Guardarsi indietro certo, ma solo per tracciare la strada che si ha davanti. Una strada di rovine che Francesco ha deciso di attraversare a piedi e in solitudine, avocando a sé tutta la potenza del pellegrino di pace, giunto a chiedere perdono, portando rispetto non ai soli cristiani ma all’intera comunità di Mosul. E in attimo è diplomazia pura, schietta, senza inutili passerelle.

Poco dopo il pontefice raggiunge la città di Qaraqosh, dove le milizie dell’Isis hanno abbattuto come prima cosa le croci. A quei cristiani che oggi faticano a tornare nei loro villaggi, Francesco ricorda con parole immediate e sincere che la loro presenza qui testimonia che la bellezza non è mai monocromatica, ma risplende per la varietà e le differenze. A questa gente Bergoglio porta un dono prezioso: Sidra, il libro profugo, finalmente torna a casa. È una storia che merita di essere raccontata e diffusa non solo perché ogni tanto il lieto fine aiuta ad andare avanti, ma perché gli esempi di come si faccia la cooperazione internazionale, quella buona, non sono mai pochi. Questo è quello che è accaduto:  

E’ l’agosto del 2014 quando Qaraqosh cittadina cristiana nella piana di Ninive, viene invasa e devastata casa per casa dai terroristi del Califfato islamico dopo che, due mesi prima, avevano occupato Mosul. La loro furia iconoclasta è totale, le milizie abbattono croci, simboli, immagini, volti di statue nel tentativo di cancellare il diverso. Sidra è il nome di un antico libro liturgico del XIV secolo. Si tratta di un prezioso manoscritto in caratteri siriaci, dall’alto valore storico artistico per via delle sue miniature, e dal valore spirituale per le antiche liturgie che contiene. Il libro infatti raccoglie le preghiere che per secoli sono state recitate in aramaico fra la festa della Pasqua e quella della Santa Croce. Alcuni sacerdoti in un atto di resistenza, poco prima di fuggire dalla città, decidono di murare il volume insieme ad altri antichi libri in un angusto sottoscala.

Quando nel 2016 la città di Qaraqosh fu liberata, i preziosi libri, tra i quali Sidra, furono portati temporaneamente nella vicina Erbil. È qui che il libro profugo viene ritrovato da due giornalisti italiani, e in seguito portato in Italia da Jabar Mustafà, rappresentante della Focsiv nel Kurdistan iracheno. A questo punto la Federazione delle ong cattoliche lo consegna subito all’Istituto centrale per la patologia del libro, grazie all’interessamento del ministro per i Beni culturali Dario Franceschini su iniziativa di Giulia Ghia, restauratrice e presidente di Verderame Progetto Cultura. Il cerchio si chiude quando il 7 marzo 2021 Sidra, il libro profugo, ritorna a Qaraqosh nelle mani dello stesso papa Francesco, che lo ha restituito al vescovo Yohanna Butros prima della recita dell’angelus.

Oggi, questo manoscritto carico di storia e coraggio è diventato un simbolo del “genocidio culturale” subito dall’Iraq per mano del Daesh. Di certo, la rinascita economica, sociale e culturale di questa regione non può che passare attraverso il recupero del patrimonio artistico e intellettuale che la popolazione con coraggio ha conservato e ha protetto, qualche volta pagando con la vita.

Prego per questo amato paese, prego perché i membri delle varie comunità religiose, insieme agli uomini di buona volontà, cooperino per la solidarietà al servizio di tutti.

È ad Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, che si conclude il viaggio di Papa Francesco. Il pellegrino di pace può tornare a casa, consapevole che oltre le ferite, oltre le macerie, la ricostruzione è forse ancora possibile.

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